Tutti
conosciamo Paolo Ferrero per la sua attività politica; forse non
tutti, e se è così è un peccato, lo conosciamo come scrittore, a
mio giudizio molto raffinato ed efficace, perché riesce ad
affrontare tematiche complesse con un linguaggio accessibile a tutti
senza mai banalizzare.
Il
suo ultimo libro si intitola “TTIP:
L’accordo di libero scambio transatlantico. Quando lo conosci lo
eviti”,
ed è stato scritto insieme a Elena Mazzoni e Monica di Sisto, due
importanti esponenti del coordinamento della campagna italiana
StopTTIP.
Lo
strumento che Paolo, Elena e Monica ci mettono a disposizione è,
anche per la chiarezza espositiva che lo contraddistingue,
particolarmente utile, perché ci permette di smascherare l’ennesimo
uso strumentale, che si spinge sino alla manipolazione, dei dati e
della loro supposta scientificità per legittimare scelte politiche
scellerate.
Come
sappiamo, i negoziati per l’approvazione del Trattato di libero
scambio tra UE e USA (quello che ormai tutti chiamiamo TTIP) sono
iniziati, dopo l'accordo politico del giugno 2013, nel luglio dello
stesso anno tra il commissario europeo per il commercio e il
rappresentante per il commercio dell’Executive Office del
Presidente americano. A discutere, in gran segreto, di un tema così
importante, sono stati quindi, sin dall’inizio, i rappresentanti
degli “esecutivi” di Usa e UE, con il totale esautoramento dei
rispettivi organi parlamentari elettivi.
Dei
contenuti di questo negoziato si è saputo ben poco, almeno fino a
quando la pressione dei gruppi di protesta ha costretto a
declassificare alcuni documenti. A maggio di quest’anno, poi,
Greenpeace è riuscita ad entrare in possesso di 248 pagine di
documenti riservati, che riguardano questioni importantissime come il
cibo, i cosmetici, le telecomunicazioni, i pesticidi e l’agricoltura.
Sin
dall’inizio dei negoziati (i cosiddetti rounds: oggi siamo arrivati
al 13°), le parti hanno tuttavia cercato di convincere i cittadini
che ciò che si stava discutendo in gran segreto era diretto a loro
esclusivo vantaggio. Sul sito della Commissione europea era possibile
leggere, già alla fine del 2013, che “il
TTIP è stato progettato per incoraggiare (con
la creazione di una vasta area di libero scambio caratterizzata
dall’abbattimento delle barriere all’ingresso, n.d.r.) la
crescita e la creazione di posti di lavoro”
e che grazie ad esso l’economia europea potrebbe aumentare di 120
miliardi l’anno, quella statunitense di 90, quella del resto del
mondo di 100.
Si
tratterebbe, sempre secondo la Commissione, di due milioni di posti
di lavoro in più e di 545 euro in più l’anno per ogni famiglia di
quattro persone in Europa, 901 dollari negli a Stati Uniti, con un
aumento medio del PIL dello 0,4% in UE e dello 0,5% negli Stati
Uniti.
Sono
cifre in ordine alle quali, naturalmente, non viene fornita alcuna
prova. Al contrario, i negoziatori (la cui legittimazione democratica
meriterebbe un discorso a parte) vorrebbero che comprassimo a scatola
chiusa, fidandoci delle loro tanto ottimistiche quanto fuorvianti
previsioni, tutte basate sul dogma indimostrato e indimostrabile
delle magiche virtù della deregolamentazione e del mercato.
Si
tratta, in realtà, di una tecnica di marketing che i meno ingenui
conoscono bene: la stanno usando, nel nostro paese, anche per
giustificare la revisione costituzionale. Anche in quel caso, sono
state fatte proiezioni, prive naturalmente di qualsiasi fondamento,
sugli effetti economici della riforma in termini di aumento del Pil.
Si
tratta, sia per il TTIP sia per la Costituzione, di una strategia di
vendita di prodotti che possiamo a buon diritto definire tossici, sia
perché non assicurano alcuna prospettiva di benessere sia perché
hanno invece effetti negativi (questi sì ampiamente dimostrati
dall’applicazione di analoghi trattati come il NAFTA, l’accordo
di libero scambio tra Usa, Canada e Messico) su importanti valori
costituzionalmente tutelati.
Un
unico disegno, insomma, che unisce e tiene insieme le riforme interne
(riforma costituzionale, ma anche, per fare un esempio, il jobs act)
e quelle esterne, sovranazionali (di cui il TTIP è un tassello
importante).
Ce
lo spiega bene Paolo Maddalena, ex Presidente della Corte
costituzionale, nel recentissimo libro “Gli inganni della finanza”
quando ci dice che questo approccio, basato sulla superiorità della
cosiddetta lex
mercatoria,
si disinteressa della tutela
dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori, dello sviluppo della
persona umana e del progresso materiale e spirituale, valori
che la vigente Costituzione italiana imporrebbe invece di tutelare.
Lo
chiarisce anche Ferrero nelle conclusioni del libro, richiamando le
teorie di Von Hayek e degli ordo-liberisti Euken
e Herhard.
Siamo
di fronte all’ennesimo, ma forse mai così virulento tentativo di
porre il mercato (e le sue leggi) al disopra delle nostre
Costituzioni.
Un tentativo che viene portato avanti con una duplice offensiva: sul
piano dei trattati bilaterali, si cerca di imporre la regola assoluta
del mercato; sul piano interno, si cerca di adattare la parte
“organizzativa” della Costituzione a quella stessa regola:
governi forti senza contrappesi, pronti a dare esecuzione ai diktat
della governance
economica
globale
(una risposta a quanto puntualmente previsto in un report del 2013
dalla Banca J.P.Morgan).
Sembrano,
queste, considerazioni quasi ovvie per chi dispone di una sufficiente
sensibilità critica e democratica. Il problema è che, anche in
democrazia (soprattutto in questa democrazia-simulacro, come la
definisce Ferrero), l’evidenza viene spesso oscurata, se non
addirittura trasformata nel suo contrario, dalla macchina del
consenso, che in entrambi i casi (TTIP e Costituzione) sta lavorando
a pieno regime.
Il
libro di Ferrero, Mazzoni e Di Sisto ha il merito di fare luce su
molti punti oscuri. Le questioni affrontate dagli autori sono tante.
Mi limito a citarne quattro, seguendo la traccia del libro.
La
prima riguarda il metodo con cui le negoziazioni sul TTIP sono state
portate avanti. Qui io vedo soprattutto due problemi: quello legato
alla democrazia, che non ammette segretezza nella gestione di
questioni così importanti; e quello delle sfere di competenza,
poiché, se è vero che l'UE ha, ai sensi del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea, competenza esclusiva in materia
di “politica
commerciale comune”,
è altrettanto vero che le materie su cui il TTIP inciderà sono
anche materie di competenza dei singoli stati europei (e in
particolare delle loro assemblee legislative), il cui coinvolgimento
non è stato però previsto (la mera ratifica dei parlamenti
nazionali, che Junker ha finalmente riconosciuto la settimana scorsa
per il CETA (l’accordo di libero scambio stipulato tra Canada e
Unione europea), è importante ma non può essere considerata in
questo senso soddisfacente, perché chiama in causa le assemblee
legislative a lavoro concluso, per un semplice prendere o lasciare;
bene, se questo porterà a far saltare l’accordo (basterà
l’opposizione di un solo paese), ma i processi democratici o lo
sono sin dall’inizio o finiscono, come probabilmente finirà anche
questo, in farsa).
La
seconda questione riguarda i contenuti del Trattato, e in particolare
i rischi connessi alla “deregolamentazione” che esso prevede in
molti settori e che, attraverso l'abbattimento delle barriere
tariffarie e non tariffarie di ingresso ai mercati, porterà ad una
invasione del mercato europeo da parte delle grandi corporations
e ad un abbassamento dei livelli di tutela di importanti diritti
costituzionali: e penso soprattutto al diritto alla salute, alla
tutela dell’ambiente e al diritto al lavoro.
La
terza questione, importantissima, riguarda i cosiddetti tribunali
arbitrali internazionali, che costituiscono il vero motore di questo
trattato, perché ne rendono sostanzialmente cogenti i principi. Si
tratta di un sistema (non nuovo, purtroppo) di risoluzione delle
controversie tra investitori e Stato, che si colloca al di sopra
delle giurisdizioni nazionali e che consente ai primi, cioè agli
investitori, di fare causa a quegli Stati che - in nome di valori
come la salute, l'ambiente e il lavoro - introducano limiti al
principio della libertà assoluta del commercio.
Si
tratta di un sistema già previsto in altri trattati che ha
consentito, ad esempio, alla Vattenfall (multinazionale svedese) di
fare causa alla Germania (nell’ambito del trattato internazionale
sull’energia) a seguito della decisione tedesca di accelerare il
processo di dismissione dell’energia nucleare. Richiesta di
risarcimento: 5 miliardi di euro! Lo stesso sistema ha consentito
alla Philip Morris di fare causa all’Australia a seguito
dell’aumento degli avvertimenti sanitari sui pacchetti di sigarette
e delle relative conseguenze sulla visualizzazione del marchio. Ecco,
il TTIP determinerebbe un aumento esponenziale di cause di questo
tipo contro gli stati europei (compreso il nostro) che dovessero
mantenere o reintrodurre misure volte a limitare il principio della
massimizzazione dei profitti. Di fronte al rischio di subire condanne
a risarcimenti miliardari, difficilmente gli Stati oseranno sfidare
le multinazionali su questo terreno. L’effetto deterrente sarebbe
assicurato.
Bisogna
peraltro considerare che questi tribunali - se si dovesse seguire il
modello previsto anche dal CETA - sarebbero composti da avvocati
nominati dalle parti, senza nessuna garanzia di indipendenza (un dato
significativo: 15 di
questi avvocati – esperti di investimenti internazionali - si sono
divisi il 55% delle cause finora trattate). Con
più di una ragione la prof.ssa Algostino, docente di diritto
costituzionale all’Università di Torino, ha parlato, approfondendo
il funzionamento di questi tribunali, di un sistema di giustizia
oligarchica per l’oligarchia economica. Pezzi enormi di sovranità
popolare che si spostano verso l'alto, insomma.
E
c’è, infine, la lettura del contesto in cui va inserito questo
trattato.
Paolo
Ferrero parla nel libro di una rivoluzione conservatrice che viene da
lontano: in estrema sintesi, dalla svolta di politica economica degli
anni 70, da quando cioè con la disdetta unilaterale degli accordi di
Bretton Wood, gli USA hanno iniziato a disegnare un nuovo modello di
sviluppo.
Altrettanto
importante è la questione geopolitica, che si gioca con questo e con
altri trattati: oltre al CETA e al TTIP, c’è il TPP, trattato
analogo al TTIP stipulato con paesi dell'area pacifica e asiatica; ma
anche, non dimentichiamolo, il TISA, che è un accordo sui servizi in
corso di negoziazione tra 23 membri aderenti all'OMC. Con questi
trattati, gli Stati Uniti vogliono costituire aree politicamente
affini da contrapporre alla Cina, alla Russia e più in generale ai
paesi BRICS, con un riposizionamento per blocchi contrapposti che
potrebbe avere ripercussioni anche militari.
Su
questo progetto incide, e bisognerà capire come, la Brexit. Con
l'uscita dei britannici dall'Unione europea - ma non anche,
ricordiamolo, dalla cosiddetta Anglosfera (USA, Canada, Gran
Bretagna, Australia e Nuova Zelanda, che continua ad avere un peso
geopolitico enorme -, gli Usa perdono il principale sponsor
europeo a favore del TTIP. La Francia, con Hollande in grave crisi di
leadership, sembra essersi tirata indietro; l'Italia no: con il
ministro Calenda, il nostro paese sembra addirittura candidarsi a
sostituire i britannici nel ruolo di fidato alleato degli USA nella
strategia che dovrebbe portare alla sottoscrizione dell'accordo prima
della fine del mandato di Obama.
Conclusioni.
IL
TTIP, soprattutto per effetto della Brexit, potrebbe fallire. Ciò
non significa che chi ha provato ad imporcelo non ci riproverà, nei
prossimi anni. Dobbiamo, perciò, rimanere vigili.
Viene
spesso citata, per rappresentare l’ingiustizia insita in questo
modello di sviluppo, cui sono funzionali gli accordi di libero
scambio come il TTIP, la parabola zoologica di Keynes. Le giraffe dal
collo lungo che accaparrandosi le foglie migliori, quelle poste alla
sommità degli alberi, lasciano morire le giraffe dal collo corto.
Mai questa parabola fu più attuale. Le corporations
continuano ad allungare il collo e a mietere vittime.
Ma
l’egoistica ingordigia delle giraffe dal collo lungo ha altre
conseguenze.
Viene
in mente, a questo proposito, il grandioso e minaccioso apologo
dell’Isola di Pasqua. Come ci spiegano gli studiosi, l’isola
polinesiana era una terra fiorente, ricca di foreste e cibo, dove
vivevano migliaia di persone. Ma quando nel 1722 arrivarono gli
europei, trovarono una terra desolata, completamente deforestata,
dove sopravvivevano pochissime persone.
Cos’era
successo? Era successo che la lotta tra i clan che popolavano l’isola
venne col tempo ad essere scandita da una pratica tanto curiosa
quanto, alla lunga, rovinosa. Questa pratica era legata
all’edificazione delle famose teste di pietra, i monoliti che
ancora oggi rendono celebre l’isola. Questi monoliti erano, secondo
gli studiosi, simboli di potere, edificati per celebrare le vittorie
negli scontri tra clan. Ogni nuova testa doveva essere più grande di
quella precedente per simboleggiare la forza di chi, via via,
imponeva il suo potere sull’isola. Senonché, per scalpellarle
nelle cave, per trasportarle all’esterno e issarle occorrevano
tronchi d’albero d’alto fusto e fibre legnose per fabbricare
funi. Alla fine, a forza di tagliare alberi, l’isola su
desertificata. Poi, nella generale guerra di tutti contro tutti,
anche le teste di pietra andarono in gran parte distrutte. I
sopravvissuti pensarono ad una via di fuga dall’inferno che essi
stessi avevano creato con le proprie mani. Ma il legno per costruire
le barche che avrebbero costituito la loro salvezza era orma finito.
Cosa
c’entrano questa parabola e questo apologo con il TTIP? C’entrano,
perché ci permettono di ricordare due cose. La prima: che dobbiamo
stare sempre dalla parte delle giraffe dal collo corto. La seconda:
che dobbiamo lottare con tutte le nostre forze affinché il mondo in
cui viviamo non diventi una immensa isola di Pasqua.
Opporsi
al TTIP fa parte di questa lotta.